Motto


"Chi scende, non sale; chi sale, non zucchero; chi scende, zucchero".



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domenica 20 novembre 2016

QUADERNI DI FINE OCCIDENTE - III - LA CRISTALLINA PERFEZIONE DELL'ASTRATTEZZA

Per continuare l'allegra carrellata di alta intellettualità che porta a un bel nulla di fatto, mi rifaccio qui ad una pertinente conferenzessa del pro-no alla riforma Prof. Gustavo Zagrebelsky tenuta nell'ambito del festivàl della filosofia a Sassuolo nel passato settembre. Come tutte le cose, lasciata lì a frollare, la conferenza adesso mi dice più cose che nell'immediato.  
L'ottimo ex presidente della consulta fu chiamato a parlare sul tema di quest'anno, ovvero l'agonismo, la concorrenza e la competitività in genere. Come e più del Settis commentato in quest'altro post, lo Zagrebelsky ha dispiegato una lucidità analitica sul tema scelto da vero intellettuale; come è più di Settis, tuttavia, le sue conclusioni si sono arrestate alla soglia del teoreticamente ineccepibile, per poi scivolare via senza dirci concretamente il come del suo cosa. Il che, beninteso, non muta di un millimetro la nostra stima intellettuale per l'uomo, il giurista e il professore, ma ci lascia sempre in bocca l'amaro dell'intellettualismo sterile. 
Si parte insomma sull'appagante autostrada del pluralismo e della tolleranza, e la si prende alla lontana, giusto nel 1562 quando un consigliere della regina di Francia, tal Michel de l'Hôpital, in un periodo in cui cattolici francesi e ugonotti si sbranavano vicendevolmente con voluttà, se ne venne fuori dichiarando che non è importante stabilire quale sia la vera religione, ma il saper viverla insieme. 
Come dire: mentre un cuius regio et eius religio aleggiava per l'Europa, il tizio qui non negava per principio che fosse possibile la convivenza concorde senza che lo Stato imponesse UNA sola verità. Di qui il salto su Gesuiti e illuministi porta alla moderna nozione di pluralismo, che ha per suo germe costitutivo il laico rispetto delle idee, presupponendo che tutti appartengano alla medesima esperienza & storia, meglio ancora ad un medesimo contesto da cui tutti traggono legittimazione. 
Zagrabelsky salta dunque al problemuccio oggidì più urgente, che non è il pacco tirato da Dylan a quelli del nobel, né la scandalosa assenza di Justin Bieber agli EMA di Rotterdam, no no: il problema è che il cospicuo fenomeno migratorio cui le nostre eurocoste sono sottoposte sta sovvertendo equilibri, sì che il pluralismo forse non basterà più; cioè: facile pluralizzare quando il contesto di riferimento è poi sempre quello, cattolici o ugonotti sempre europei siete. Ma se arriva gente da fuori?
A venir silurato è poi il concetto di universalismo, che presuppone che l'agire individuale sia normato da una norma di validità universale. Ma se le norme degli arrivanti differiscono dalle nostre? L'universalismo, nel momento in cui non ammette alcuna deroga e concepisce chi deroga come un'anomalia da espellere, crea barriere, invece il multiculturalismo promuove la liceità di diverse visioni del mondo. 
Mentre quindi una certa arietta di John Locke comincia a spirare in quel di Sassuolo, Zagrebelsky aggiunge che il terzo grande avversario del multiculturalismo è l'individualismo: bei tempi quando i diritti dell'individuo venivano anteposti a quelli della comunità, nel senso che i secondi derivavano assiologicamente dai primi... Paradosso dei paradossi, in una società sedicente individualista vanno invece a crearsi concessioni al potere che, per proteggere gli individui medesimi, li omologa. 
Ecco. Se quindi mettiamo sul piatto universalismo, individualismo e multiculturalismo, esiste una ricetta che salvi i primi due senza impedire al terzo di dire la sua?
Dice Zagrebelsky che le opzioni sono 3:
1) Separazione: si coesiste, non si convive. Il separatista vede le culture come entità spirituali chiuse, ciò per cui eventuali relazioni inter-culturali sarebbero solo fastidioso inquinamento delle rispettive identità (guai!!). All'arrivo dei diversi, l'unica reazione è la segregazione. No, no.
2) Integrazione: qui il problema delle differenze culturali è neutralizzato alla radice, perché si fa di tutto per annullarle in modo che non creino più disagi. Se la cultura A è pronta a integrare, la cultura B deve farsi placidamente assorbire. Si crea quindi una asimmetria perfetta, con una cultura dominante che assorbe tutte le altre. Dall'assimilazionismo si produce poi l'isolazionismo, perché le culture piccine che non si sono lasciate assorbire restano semplicemente ai margini, povere & dimenticate. Quando va bene. Nel caso invece la cultura non assorbita sia percepita come nemica, l'assimilazionista va oltre il separatista: estingue il diverso, come fecero i nazisti con gli Ebrei. E quelli là agivano sentendosi perfettamente legittimati a farlo. No, no.
3) Interazione: si mescola, ma si tollera. Il postulato è la capacità di rapportarsi per definirsi autonomamente e allo stesso tempo partecipare ad un cammino comune. Si apprende gli uni dagli altri; si dà e si riceve. E' quindi un atteggiamento opposto tanto al separatismo che all'integrazionismo, perché l'assunto di base è l'accettazione della diversità; nessuno ha diritto di assorbire nessuno, men che mai di respingerlo. Ogni cultura riconosce nell'altra uno stimolante competitor nella costruzione della coesistenza. Nessuno rinuncia a priori ai propri ideali, non si sente depositario di nulla di assoluto. 
Dice: relativismo? No, osserva Zagrebelsky, un conto sono le verità di fede non negoziabili, altra cosa è l'etica, i cui convincimenti sì possono essere soggetti a ritracciamenti reciproci tra culture. Universalismo è permettere ai membri della macro-comunità mondiale di andare, tornare, uscire, rientrare dalle idee e dalle culture, essere aperti al dialogo in verità e giustizia. E il vero individualismo è la priorità della coscienza degli esseri umani sui condizionamenti delle istituzioni.

§§Clap clap§§.

Adesso, attesa l'insindacabile lucidità delle tesi sovraesposte, tutti si sarebbero attesi un esempio, anche uno solo, di messa in pratica del limpido assunto: siccome abbiamo giusto l'est/sud del Mediterraneo che ci bussa alle porte, ma fra poco più che bussare si presenterà a colpi d'ariete, forse sarebbe il caso di calare i decreti nei precetti (Senecaaaaaa....!!!), trovando applicazioni pratiche a questi infallibili esercizi teorici: di esercizi dovremo parlare, infatti, finché non verranno tradotti in un piano culturale- umanitario globale.
Bello è infatti distinguere il separatismo dall'integrazionismo e poi, come nei confronti tra quadrilateri che hanno i lati paralleli MA non le diagonali equivalenti, oppure hanno quelli e quelle MA non gli angoli retti, arrivare pian piano al quadrato che soddisfa tutte le proprietà quadrilatere. E quindi il multiculturalismo che risolve tutto. Però, mi domando e chieggo:
a) l'equilibrio tra culture sarà frutto di un processo graduale, certamente; come si farà a smussare lo smussabile fino a che tutti più o meno sopportino la "diversità" degli altri? A quale momento della perfetta fusione potremo gridare alla perfetta fusione? Sarà quantificabile e/o qualificabile? E in base a cosa?
b) il multiculturalismo dovrebbe a questo punto essere una massa perennemente fluida, perché, posto che si giunga al perfetto equilibrio di tutte le diversità, esso diverrebbe un nuovo universale valido per tutti: sarebbe in grado di aggiornarsi nel caso emergessero diversità nuove?
c) in concreto, modello "occidentale" (qualunque cosa ciò voglia dire) e modelli alternativi/competitivi, come possono integrarsi senza disintegrarsi reciprocamente? Per essere multiculturali,  un americano e un arabo, per dire, cosa devono aggiornare/mutare/integrare del loro stile di vita? Quali cibi, quali abiti, quali libri, quali spettacoli, quali sistemi di gestire le relazioni interpersonali devono far parte del loro bagaglio? Persone che credono fortemente nella sacralità della vita dal concepimento alla defunzione e persone favorevoli all'eutanasia e all'aborto, come troveranno un punto d'incontro? Decidendo, nel caso dell'eutanasia, a quale livello i parametri vitali di una persona in coma rendono accanimento terapeutico le cure che le si somministrano? Che ruolo spetterà alla religione? L'economia, per mettere d'accordo tutti, dovrà mettere d'accordo finanza aggressiva, derivati cartacei, caffè equo e solidale, decrescita felice?
d) E se uno al multiculturalismo proprio non volesse crederci? Non perché costui avesse conati assimilazionisti e/o separatisti: consideriamo semplicemente il caso di uno che sta bene come sta, fiero e appagato del suo sistema di valori, rispettoso di quelli altrui ma per nulla intenzionato a realizzare alcuna mistura. Cosa ne sarebbe di costui? Come si comporterebbero con lui i multiculturalisti? Gli direbbero che è lui che si segrega da sé, quindi affari suoi, e allora diventerebbero separatisti? O proverebbero ad assorbirlo nel multiculturalismo, in ciò diventando assimilazionisti? O lo "sopporterebbero" lì dov'è, membro inerte di una società fluida?

Se c'è una cosa cui tutti aspiriamo ardentemente è la pace che più pace non si può. Se la via è quella multiculturale, bisogna fornire esempi, casi concreti, applicazioni pratiche di essa medesima: le alte e geometriche costruzioni del pensiero sono tanto carucce, ma la carenza empirica le rende sottili sottili. E questa sottigliezza può essere la fine del pensiero che si autonutre della sua pensosità.
Ecco.

lunedì 14 novembre 2016

QUADERNI DI FINE OCCIDENTE - II - LE BELLE PAROLE SENZA ATTO

C'è purtroppo del vero in coloro che sostengono che certe belle parole, se non si traducono in qualcosa di concreto, restano appunto belle e basta. Da che mondo è mondo, come già dissimo altrove, Cicerone alloquisce su evoluzioni del mos maiorum e forme di governo assortite per salvare Roma dalla crisi, ma alla fine è Ottaviano a suon ferraglia a chiudere la partita e trasformare Roma da Repubblica ad impero, divenendone contestualmente il tenutario.
Per dire cioè che la classe intellettuale dello Stivale, anche quando lo Stivale dominava il mondo (di allora, beninteso) sin dal principio ha mostrato di non poter far altro che andare a ruota del potere, quello vero, quello che si nutre di sangue e m****. Non conta, a questa fase, perdersi a considerare le epoche in cui l'andare a ruota è significato vuoto ossequio. Anche chi, come Cicerone, si poneva l'obiettivo [non sempre riuscito] di incidere concretamente sui nodi critici (etico-politici) della società contemporanea, è finito un pochino decapitato. Possibile? Antipatia a parte che può essere provata da chi sulle versioni di Cicerone ha perso giovinezza e voti (ma saranno fattacci vostri, tie'), la lettura anche solo cursoria dei suoi eleganti e geometrici ragionamenti contenuti nelle opere politiche e filosofiche non può non trovare, in astratto, il plauso di chi (vero, Lorenzi'?) possiede una minima coscienza civile & umana (intesa come humanitas). Eppure, eppure... l'intellettuale chiacchiera ma il comandante comanda, il politico politica, la scimmia vestita si veste e si bea di essere tale e la civiltà scatafascia. Almeno a giudizio dell'intellettuale, chè per la scimmia vestita, una volta che si è fatto il seimillesimo giro al centro commerciale (tre ore di coda in tangenziale, mezz'ora di giro) per non comprare niente, va bene uguale.
E insomma, cosa manca all'intellettuale nostrano, anche quando non ossequia il trono (o il tronista) di turno, per far sterzare la storia senza che ci voglia Ottaviano? 
La praticità, temo. 
Colpa di un humanitas sempre troppo astratta? Oddio, Cicerone, sempre lui, è di fatto vissuto a pane e politica (intesa proprio come vita della polis), nel senso che se c'era uno che non amava parlarsi addosso, ma cercava sempre le soluzioni più efficaci da tradursi in pratica, insomma, era lui [che poi fosse un vanitoso di primissima scelta, è un'altro discorso]. Eppure non ha tradotto come lo spirito dei tempi esigeva. Machiavellicamente, la sua virtù non ha avuto riscontro con le circostanze storiche, che per effetti di fortuna (sempre machiavellica) hanno premiato altri con altre virtù.
Oggi invece i discorsi della nostra intellettualandia, pure ineccepibili, soffrono di un'astrattezza ancora più rimarchevole e dolorosa se si pensa al contrasto tra le folle plaudenti in direzione dei tribuni medesimi ai vari festivàl  filosofico-letterari o nei programmi TV ad hoc, e la direzione di chi fa la storia e che va proprio in senso opposto. Il fatto è che un Cicerone dei bei tempi riusciva perlomeno a portare avanti un discorso da capo a pie', salvo poi scoprire che né il capo né i pie' erano poggiati sulla solidità dell'esistente (a Cicero', che davero davero me voi riciccia' la repubblica der tempo de Scipione? E 'nnamo, su...). Oggi, invece, ai pur cospicui discorsi di intellettualandia mancano il capo e/o i pie', a seconda dell'angolo di visuale.
Produrremo due esempi a sostegno della tesi, perché nei saggi brevi usa così. Oggi partiamo con l'esempio 1), ché il 2) merita un post a sé.
L'ottimo Salvatore Settis (che se lo avessero fatto Ministro della Cultura, ah, beh...)(ma appunto noi di intellettualandia viviamo di ah, beh...) ha dedicato un volumetto agile ed accorato alla catastrofe che secondo lui grava su Venezia. Giusto perché il lettore non si aspetti qualcos'altro, il volumetto titola Se Venezia muore (Einaudi, 2014). Forte, vero? L'assunto di base del volume, che in realtà è la (saggia) rifusione di interventi pregressi, consiste nel considerare l'eccezionalità di Venezia come il suo massimo pregio e il suo massimo pericolo. A fronte di una moda architettonica che tende a tirare fuori soluzioni creative perlomeno discutibili e per nulla integrate col paesaggio che le circonda, Venezia è lì, dice Settis, quasi come una provocazione al malcostume costruttivo contemporaneo. Se altrove trionfa la hybris del grattacielo, se il mondo neoliberista punta sulla modularità ripetitiva dei suoi prodotti, ciò per cui ogni città dovrebbe diventare uguale a tutte le altre perché l'omologazione "vende" meglio, ecco invece Venezia, talmente unica da poter essere solo malamente imitata da tutte le Venezie fatte di fuffa che fioriscono un po' ovunque nel mondo. Peccato che lei, Venezia, così unica e mal ripetuta, muoia in realtà della sua stessa unicità, poiché ormai la città è ridotta ad una sorta di parco divertimenti per turisti che la invadono (e la rovinano) concependola per la più parte come una specie di Las Vegas ante litteram, non per il casinò, ma per il carattere quasi fiabesco del suo insieme. Venezia così unica da potersi vivere (e imbrattare) solo come paese dei balocchi con le gondole e i palazzi orientaleggianti. Turismo e null'altro. Effetto di tutto ciò, la popolazione veneziana, dai 174.808 abitanti del 1951, è precipitata allo spaventoso numero di 56.684 al 30 giugno 2014. Ridotta a un terzo in 60 anni (pag. 10 del volume).
Venezia può morire o può risorgere, dice, Settis, purché si attivino politiche virtuose e lungimiranti.
Bene.
Quali?
Eccole, pag. 153 del suddetto pamphlet: "Di un nuovo patto di cittadinanza c'è bisogno, a Venezia e non solo, sia per chi provenga da famiglie del luogo, sia per chi venga da lontano ... Far vivere la città storica, proiettarla nel futuro vuol dire elaborare politiche per invertire la logica perversa dell'esodo favorendo la residenzialità dei giovani con forti incentivi anche fiscali. Vuol dire arrestare lo sfrenato riuso turistico-alberghiero degli edifici e la proliferazione delle seconde case. Vuol dire incoraggiare le attività produttive e le  manifatture, sostenendo il lavoro creativo e moltiplicandone le possibilità e le occasioni. Vuol dire ricongiungere città storica, Laguna e terraferma differenziando le funzioni, rilanciando i suoli agricoli e le valli da pesca, riutilizzando gli edifici vuoti o in rovina, incentivando la ricerca e la formazione professionale e universitaria... Vuol dire cercare modelli, analizzare situazioni, valutare opzioni, prendere iniziative di qualità come la Biennale o le università e non ... mettersi al servizio delle 'incoercibili forze del mercato'...".
Ineccepibile, no? Chi non sarebbe d'accordo con una magna charta di tal fatta? A questo punto, però, si vorrebbe anche leggere qualche riga sul come tutti questi encomiabili progetti possono attuarsi, specie alcuni che paiono piuttosto vaghi nell'enunciazione, in particolare il rilancio della manifattura, la riqualificazione degli edifici storici da non usarsi più come alberghi e l'incoraggiamento del lavoro creativo. Il lettore saputo penserebbe a questo punto che la traduzione in atto di tutte queste proposte sia rendicontata da pag. 154 in poi.
No, perché con pag. 154 il pamphlet (fin qui eccellente) finisce, ribadendo ciò su cui nessun essere minimamente dotato di humanitas potrebbe dissentire, ovvero che, se muore Venezia, "morrà l'idea stessa di città, la forma della città ... come impegno e promessa di democrazia".
Va tutto bene, intendiamoci. Resta però l'amaro retrogusto di una pars destruens (la critica alla 'civiltà dei grattacieli') che non si fa fatica a condividere e che non è però puntellata da un'altrettanto efficace pars construens. Dirà il lettore sagace: ma il come non è affare dei teorici, lo è dei politici. Certo, ma qui sta il punto: avendo la classe intellettuale deciso di parlare dal trespolo senza immischiarsi attivamente nella fanghiglia, per non dire altro, della politica, i suoi pur apprezzabili messaggi restano troppo spesso vuota eco. Il quadro tracciato da Settis è terribile, ma le soluzioni sanno troppo di astratto, se non si passa a pianificarne attentamente la messa in opera. Certo, da un pamphlet come quello citato è forse troppo aspettarsi anche questo. Il problema, temo, è che se l'intellettuale d'oggi si aspetta che le sole belle parole smuovano la coscienza del politico, ecco, insomma...
Voglio dire: poniamo pure che io, Ministro del MIBACT, prenda a cuore TUTTO quello che Settis scrive; come minimo lo convocherei per chiedergli:
1) Se non uso gli edifici storici come alberghi o casinò, hai un'idea per usarli in altro modo, essendo che il patriziato veneziano che quegli edifici abitava si è un pochino estinto? [ho notato peraltro quest'estate che alcune antiche case gentilizie sono state riconvertite sic et simpliciter a percorso museale in cui il visitatore non vede nient'altro che gli interni della casa stessa - non come Ca' Rezzonico, per intenderci- e non è malaccio]
2) Quando parli di rilancio della manifattura, esattamente quali prodotti sponsorizzeresti? Che artigianato specifico, a tuo giudizio, esprime lo spirito di Venezia, oltre, per esempio, alla vetreria muranese? Che concorrenza può esserci sul mercato con altri prodotti? Quale il pubblico di riferimento?
3) Quando mi parli di lavoro creativo, a cosa pensi nello specifico? Giovani artisti? Giovani musicisti? Giovani architetti? E anche una volta che i creativi avranno creato, a che varrà il loro creare se nessuno paga per fruirne? O peggio: se il loro creare rendesse Venezia ancora più... Venezia di prima, chi fermerebbe le orde di ulteriori turisti, allettati dal new venezianism?
4) Favorire la residenzialità dei giovani anche con gli incentivi fiscali. Ottimo. Ma una volta che me li hai fatti restare a Venezia, a quali attività remunerative me li indirizzi perché non desiderino ardentemente di tornare sul continente?
5) Assodato che cedere alle forze del mercato sarebbe la morte di Venezia, a quali altre forze soggiacerebbero le attività produttive, i suoli agricoli e le valli da pesca, il riutilizzo degli edifici in rovina? Se intendiamo che nessuno di questi settori sarà azzerbinato alla pura logica della produttività a tutti i costi che va a scapito della sostenibilità ambientale, ci siamo. Certo, trovare la quadra tra richieste del mercato ed effettivi limiti produttivi non è cosa che si possa delineare in due giorni.  
Siamo tutti d'accordo che la monocultura turistica ha distrutto il tessuto sociale della città. Bisogna chiedersi però a quanti turisti Venezia è disposta a rinunciare per salvarsi: pare che anche solo il 25% dei turisti porti il 75% del reddito globale di Venezia, quindi una loro diminuzione anche drastica non provocherebbe alcuna decurtazione dei dindini, anzi si risparmierebbe un sacco in spese di pulizia. Resta allora semmai da porsi una domanda in senso contrario: dobbiamo arrivare al capolavoro di disincentivare i turisti? Quali? Come? Il modello del turista veneziano truzzo che tutto vede, nulla capisce e tutto sporca credo sia ben presente a tutti noi e nessuno di noi ne sentirebbe la mancanza girando per calli & campielli. Che possa una città respingere i suoi stessi turisti mi pare tuttavia un'utopia grandina. Tanto per dirne una: come credete che reagirebbero ristoratori e albergatori? Si consolerebbero con la storia del 25% di cui sopra? Sì, lo farebbero dopo robuste iniezioni di Latouche e di decrescita felice. Resta il problema di come inoculargliele.
In sostanza, le parole di Settis sono rosolio per noi seguaci di Verità e cercatori di Bellezza. Altro è metterle in pratica. Ottima la diagnosi settisiana, insomma. Sulla terapia, però, bisogna ampliare. E però lo devono fare ancora i Settis, senza delegare la faccenda alla politica, altrimenti la politica non cesserà di zittirci rinfacciandoci l'astrattezza di un pensiero che non sa tradursi in realtà.