Motto


"Chi scende, non sale; chi sale, non zucchero; chi scende, zucchero".



Per scaricare il poliziesco pentadimensionale I delitti di casa Sommersmith, andate qui!!!

giovedì 29 gennaio 2015

Una bianca marea

Probabilmente, da quando avremo iniziato a scrivere questo post a quando l'avremo finito, tutto sarà cambiato e dovremo cestinarlo, ma la politica italiana è così, frizzante, brillante, rampante, sempre strabiliante, il tuo nome è Robin Hood.
Resta quindi che Renzi ha lanciato nell'orbita quirinalizia Mattarella, che come visibilità internazionale è messo maluccio, ma ha dalla sua le stimmate di essere fratello di una vittima della mafia, cosa che, per puro paradosso, lo internazionalizza ben più di qualsiasi incarico in Commissione europea possa brandire Prodi per proporsi come futuro sovrano del Colle. 
Mattarella, poi, a puro livello simbolico, sarebbe l'ideale per chiudere una stagione da lui stesso aperta: sua è stata la legge elettorale maggioritaria con recupero proporzionale che ha fatto entrare l'Italia ufficialmente nella Seconda repubblica. L'italianità sublime di quella legge stava tutta nel fatto che i poveri cristi di ogni partito venivano fatti confliggere tra loro nei singoli collegi uninominali, e chi prendeva anche solo un voto in più di tutti gli altri veniva eletto. Effetto uno: bastava anche un 20-30% di voti, se tutti gli altri singolarmente non arrivavano al 15, per l'elezione. Bella rappresentatività del corpo elettorale. Effetto due: visto che il popolo italiano vota per tifoseria, poteva venir calato nel collegio X un attaccapanni che non era neanche di quelle parti e quelli del suo partito lo votavano comunque: a Brescia nel 2001 fu candidato al senato il romano Paolo Guzzanti e noi amanti del cdx di allora lo votammo, fregandocene del dettaglio che lui rappresentasse la città come Carlo d'Inghilterra potrebbe entrare negli One Direction. Bel rapporto candidati- territorio (difatti molti big della sinistra fuori che da Toscana, Emilia, Marche, Umbria, col piffero che si facevano candidare). Per evitare però che i capoccioni avessero la botta di sfiga di restar fuori dai giochi, un ristretta quota di essi poteva candidarsi anche nella lista proporzionale, che garantiva recuperi e paracadute ad eventuali trombati nei collegi. Questa legge, che avrebbe dovuto regalarci maggioranze stabili, politica trasparente e coalizioni ben definite, ha finito per regalarci il governo Berlusconi 1, il governo tecnico Dini, il Prodi 1, il D'Alema 1 e 2, l'Amato 2, il Berlusconi 2 - 3 (se si considera il rimpasto del 2005). Sette/otto governi in 11 anni. Nulla di troppo distante da quello che accadeva col proporzionale. Per tacere del fatto che la legge Mattarella avrebbe dovuto portare all'estinzione dei partitini, che invece fiorirono amenamente a legislature in corso, moltiplicando nomi e siglette di gente che già valeva poco nel partito grande e finì per valere ancora meno nel gruppetto da 10 deputati. 
Mattarella, dunque: come non si deve giudicare un padre dal figlio, così noi non giudichiamo l'uomo dalla elegge elettorale da lui battezzata, che peraltro ora giace sepolta negli archivi della memoria, essendo stata sostituita nove anni fa dall'incommentabile legge Calderoli.  Epperò intorno alla figura di questo siculo silenzioso non può non addensarsi l'aura simbolica del rappresentante di ciò che poteva essere e non fu: gli orizzonti di buona politica che la sua legge elettorale prometteva sono sfumati nel volgere di una micro- legislatura (1994-1996) allorché il pionerismo bombastico di Silviuccio si scontrò con l'intrattabilità della Lega e le manovre da consumati uomini di sinedrio di Scalfaro e pidiessini, capaci di scodellare un governo tecnico guidato da un ex ministro berlusconiano che a tal punto dispiacque a Berlusconi da far finire all'opposizione il partito vincitore delle elezioni, con l'ex opposizione a votare la fiducia ad un governo nato da una costola dell'ex maggioranza. Sublime italianità anche qui. Si noti, appunto: prima di essere impallinato dalle manovre quirinalizie, Berlusconi scontò il tradimento di Bossi, ovvero di uno degli uomini nuovi della politica italiana; il quale, entrato nelle stanze del potere, si mise a fare esattamente come i politici vecchi, mitragliando minacce di crisi governative ad ogni stormir di emendamento poco gradito al popolo leghista. Per dire che è proprio la mentalità del politico italiano a non funzionare, malata com'è di guicciardinismo: il Paese può andare in malora, io in Parlamento devo mungere solo le leggi che servono a me e alla mia parte, stop. 
E il mattarellum restò lì, salutato come lo strumento della palingenesi catartica della politica e diventato invece, con gli accordi di desistenza PDS-Rifondazione del 1996, mezzo invero sleale per fregare il più possibile gli avversari. Salvo poi, giunti al governo, litigare su tutto e far cadere Prodi dopo 18 mesi. Quindi le manovrine per issare D'Alema (pezzi di Forza Italia che diventavano UDR, Rifondazione che si frantumava, tutto un puzzle di rarà sublimità), quindi il ritorno di chi aveva giurato e stragiurato di abbandonare la politica per sempre (Amato) ecc. ecc. ecc.
E' giusto avere Mattarella al Quirinale, anche se probabilmente il rischio bruciatura è adesso altissimo, avendo egli ottenuto l'investitura ufficiale del PD, fatto che notoriamente porta una sfiga cosmica. E' giusto candidare lui, a ricordare come la politica italiana ha cambiato pelle senza cambiare anima: corruzione c'era prima dei referendum del 1993, corruzione c'è stata dopo, ancora più sfacciata, arrogante, disumana. Instabilità c'era prima e c'è adesso, col problema che adesso c'è anche un'Europa severa e intrattabile cui render conto. 
Che lo si candidi, e forse lo si sacrifichi: forse, simbolicamente, la classe politica italiana oggi a guida Renzi farà con ciò una simbolica purdha che la purificherà delle sue mende peggiori. Oppure, portato Casini al Colle, continueremo ad essere quel delizioso Paese delle favole che tanto fa sorridere il resto del mondo, mondo che ci tollera giusto per il clima, i monumenti e la buona cucina. Forse è il ruolo di cameretta degli svaghi delle nazioni serie quello che ci calza di più. Mattarella si merita tutto ciò?


[update: ok, attendiamo molte schede bianche; uh, due donne a presiedere, visto le quote rosa?] 

martedì 27 gennaio 2015

Non ce l'abbiamo con lui, sia chiaro...

Sono abbastanza in imbarazzo nel dover quasi vedermi costretto, e non so per quanto, ad inaugurare una sorta di "Osservatorio Abravanel", ovvero un gruppo di ascolto formato da me medesimo, la Spocchia e l'Arciduca, sì da poter monitorare le sempre scoppiettanti dichiarazioni del manager-scrittore che non perde occasione per dire cosa non gli piace della scuola. Intendiamoci, la stella polare del suo pensiero è quella parolina per cui anche noi andiamo in deliquio, e deliquieremmo ben di più se la vedessimo concretizzata oggi sì e domani pure: meritocrazia. Checché ne dicano i figlioli e nipotini del '68 (ovvove e steveotipia!!), l'aver appiattito i valori educativi sulla sufficienza garantita a tutti come se la scuola dovesse essere la livella delle ingiustizie sociali, è stato il primo passo di un cammino a discendere che ha portato l'Italia al baratro attuale di incompetenza e corruzione. Di ciò restiamo fortemente convinti: chi sa e sa fare di più, merita di più, perché con le sue capacità dovrà contribuire al progresso spirituale e materiale della società in cui vive (sempreché sia stato sottoposto a robuste dosi di umanesimo, nevvero?)(che poi l'uomo per natura è imperfetto, si sa)(vabbe', almeno provi...). Semmai c'è da tutelare che meno sa e meno sa fare, consentendogli di trovare una scuola che gli dia quel minimo dirozzamento per non finire sotto i ponti o magari per scoprire quella passione nascosta o quella competenza ignota che studi di diverso tipo e con diverse aspettative avrebbero magari lasciato in ombra per sempre. Non è difficile, in teoria. In pratica, il problema è alla fonte: quarant'anni di ugualitarismo ipocrita hanno umiliato la professione docente, gettando nel calderone di stipendi uguali e basati solo sulla anzianità di cattedra insegnanti eccelsi e mezze tacche che avrebbero al più meritato di sgusciare carrube in qualche mercatino rionale. Da gente così si pretende la selezione delle qualità degli alunni? Ma tant'è, è l'Italia.
E allora, perché siamo prevenuti nei confronti di Abravanel, che in sostanza si pone nel nostro campo? Per i motivi già accennati pochi post sotto a questo: il buon Abry parla di scuola, ma secondo me non vi ha mai messo piede. Finora, lo ammetto, ho seguito poco le sue diagnosi e le sue ricette in materia, e spero che la scarsità di rilievi empirici sia alla base di ciò che sto per dire, ma rimango nel dubbio che egli pontifichi di cose viste da lontano, senza il contatto con la carne viva della didattica quotidiana e dei temperamenti dei ragazzi con cui ci dobbiamo misurare noi addetti ai lavori. E se queste esperienze non si fanno continuativamente e approfonditamente, qualsiasi modello proposto, per quanto accettabile in astratto, sa già di stantìo non appena esce dalle pagine del libro. Ecco, il buon Abry sta per dare alle stampe La ricreazione è finita, e lo leggeremo di certo. Atteniamoci per ora alle sue interviste, come questa rilasciata a Il giornale (nostro ex-foglio di riferimento culturale, ora ridotto a ring di peracottari). E veniamo subito al dunque: spiace, Giorgio caro, vederti ridurre l'immissione in ruolo dei 150.000 o giù di lì precari ad un'operazione nell'interesse dei docenti e non degli studenti. Allora, ribadito che né i concorsi né le SSIS hanno mai veramente fatto filtro, impedendo ai meno saggi di adire alla cattedra, ma questo l'avete saputo SEMPRE tutti e avete SEMPRE lasciato correre, ti domando: sei sicuro che non sia anche un po' interesse degli studenti avere finalmente dei consigli di classe stabili, sottratti alla girandola degli incarichi annuali e delle cattedre volanti che saltano e riatterrano puramente a caso? So bene che anche l'organico funzionale non risolverà alla radice il problema, giacché qualche docente che chiede trasferimento o che si ammala ci sarà sempre; nondimeno, sottrarre la massa dei precari all'umiliazione dello zingaraggio scolastico non avrà, ti chiedo, anche effetti costruttivi sulla loro autostima, sull'entusiasmo che deriverà dalla possibilità di programmare a lunga scadenza la didattica con le classi, sulla creazione finalmente di situazioni ambientali consolidate, unico presupposto per il consolidamento delle competenze? Poi tu mi dirai che questa immissione in ruolo in massa porterà cani & porci, e che non è certo per il fatto di essere finito in graduatoria che uno può pretendere di salire in cattedra se poi non sa insegnare. E allora di agisca alla foce, visto che alla fonte (le abilitazioni e i concorsi) qualche falla c'è sempre. Epperò non è per evitare i cani & porci in cattedra che le aquile e i cigni devono sentirsi dire che per loro c'era spazio, ma no, anzi abbiamo scherzato. Purtroppo la meritocrazia che sia io che tu tanto amiamo deve prevedere un momento di sversamento indistinto di nuova linfa nei ruoli dello Stato. Abbi semmai il coraggio di proporre misure che blocchino DOPO gli incapaci, quando cioè la loro incapacità è palese oltre ogni ragionevole dubbio. E' lì che ti trovo deboluccio, Abry.
Ma non solo lì. Ascolta, si capisce lontano un  miglio che, fosse per te, aboliresti tutti i licei d'Italia per sostituirli con scuole tecniche in cui tutte le materie sono insegnate in inglese, le lezioni si svolgono via Skype e i docenti sono solo dei modesti facilitatori. Si vede. Si sente. E allora, quando tiri fuori il preclaro esempio dei bambini di prima media in Finlandia a cui è stato chiesto di risolvere il problema dei flussi del traffico al semaforo del loro paesello, abbi il coraggio di trarre le conclusioni fino in fondo, pur nel ridicolo ASSOLUTO dell'episodio da te addotto a prova della superiorità finnica su noi eredi di Cicerone e Tucidide: dicci in cosa devono consistere i curricoli delle scuole del futuro, dicci chiaramente che del pensiero umanistico non te ne può fregar di meno, che è molto più importante aiutare gli automobilisti ad avere flussi di traffico decenti invece che spiegar loro dove porta la strada della vita che percorrono ugualmente. Dillo, su, che degli orizzonti di senso non sai che fartene, che alla scuola bisogna chiedere solo il saper fare, perché di saper essere, in un universo dominato dalla tecnica che trasforma i mezzi in fini è da folli andare oltre il quotidiano espletamento dei propri doveri materiali. Dillo che lo spirito è lo scomodo e non gradito ospite delle nostre esistenze, il proteiforme ed inafferrabile quinto o sesto o settimo elemento che invade i nostri corpi, attiva l'anima e ci costringe a chiederci dove tendono le nostre azioni, a metterci in rapporto con il mistero inconoscibile dell'essere, insomma tutte cose che certa neuroscienza e certo positivismo vigliacco definiscono come relitti imperfetti dell'evoluzione del cervello, come se chiedersi il perché (causale e finale) delle cose fosse un handicap e non la molla che ci ha garantito 5 milioni di anni di progresso dall'Australopiteco a qui (One direction e Fabrizio Corona esclusi, s'intende) (dai poverino, ha chiesto pure la perizia psichiatrica)(colpa dei professori che ha avuto alle superiori, di sicuro...). Dillo che la scuola deve cessare di educare e deve ridursi ad apprendistato continuo. Questa è la civiltà che vuoi? Tutti manager e tornitori? Vuoi sopprimere la ricerca del bello in nome dell'utile? Vuoi che l'uomo diventi un automa che regola i flussi semaforici? Se lo pensi, dillo. Abbi il coraggio di negare l'humanitas. Poi non stupirti se la nostra civiltà decederà del tutto, e quando anche tu sarai classificato come "non produttivo", verranno a chiederti se preferisci l'imbalsamazione istantanea o l'eutanasia da sano, "tanto ormai non servi più". Pensaci bene. Bene. Bene.

Mo' che fanno, a guera der Peloponneso?

C'è evidentemente un che di sottilmente ironico nel quasi en plein dell'impronunciabile (per Vendola e Jovanotti) Tsipras e della sua Syriza (che non è la persecutrice di Candy Candy, eh?) alle politiche greche di ieri. Per vincere, ha vinto, e tanto. Però gli mancano due seggi e allora è andato a mendicare alleanze, lui, uomo di estrema sinistra, con la destra. Che non ha esitato a concederglieli, i seggi, pregustando di certo futuri, deliziosi scenari ricattatori, visto che tutte le volte che ci sarà da decidere mezzo comma di mezza legge sarà un fuoco d'artificio. Che i due partiti siano accomunati dalla vocazione antieuropeista è infatti ben scarso collante rispetto agli oceani di differenze ideologiche che li separano. Ma sarà una danza macabra di eccitante splendore decadente, vedere Tsipras fare il vocione grosso con Merkel, sapendo di avere mezzo parlamento che non attende altro che la sua giubilazione, potendo fidare appunto su alleati che più assurdi non si può.
In tutto ciò l'ironia sta nel fatto che il minuetto che ci aspetta nei prossimi mesi ha sede in Grecia, la culla della civiltà europea e oggi sgabuzzino puteolente della medesima. Certo, Temistocle e Pericle sono morti da mo', c'è stato di mezzo l'impero Ottomano e anche coi colonnelli non si stava tanto bene, ma sicuramente si resta colpiti dal fatto che la patria remota del continente che ha conquistato il resto del mondo oggi prenda una direzione del tutto opposta rispetto agli indirizzi che vengono dalla direzione centrale. Ma perché stupirsi? Oggi l'Europa, quest'Europa molto bancaria e molto rigorosa che continua ad avere un peso politico internazionale pari a quello del gluone, riesce però al proprio interno a darsi le strutture politiche e soprattutto economiche che i greci, nel loro imo midollo, detestano giusto dai tempi di Milziade: quelle dell'impero sovranazionale, giusto come quell'impero persiano che tanta noia diede ai discendenti di Achille tra il 490 e il 480 a.C. più spicci. Alla fine la vecchia Europa, uscita a pezzi da due conflitti mondiali, ha costruito la pace nei suoi confini prima sterilizzando la Germania, poi aderendo alla NATO, poi buttando giù il muro di Berlino, poi celebrando trattati unitari nella città dove è sepolto d'Artagnan, poi tracimando di direttive, spread, mozioni, avvertimenti, tutto per vedere un'economia in ginocchio e una popolazione media ingrifata. Come in Grecia, per dire. E la Grecia ha detto un sonoro NO alle politiche europee. A colpi di populismo, certo. Il fatto che le due (quasi) estreme vadano d'accordo per governare, apparentemente inconsapevoli del baratro su cui balla il loro curioso duetto, dimostra che laggiù nell'Egeo sono davvero alla canna del gas. Eppure il messaggio è lo stesso di 2500 anni fa: non vogliamo essere colonie di qualsivoglia impero. Una svolta, intendiamoci, che ci sembra foriera più di guai che di positività, considerando chi la guida. Però, lassù a Francoforte, due domandine dovrebbero farsele, prima di ripartire con le minacce. Non basta concludere che o si fa come Germania-Olanda-Finlandia ecc. sennò si è cattivi. Ridurre un Paese alla fame e allo stremo, un Paese, sia chiaro, che ha truccato i suoi conti in maniera inaccettabile, resta ai nostri occhi un rimedio peggio del male, frutto di una concezione che sembra applicare all'economia e alla società i criteri della selezione naturale, sposandoli con il versante più spietato dell'etica calvinista, ciò per cui il perdente è perso per sempre, né i vincenti, o meglio gli eletti, ed eletti perché economicamente prosperi, hanno nulla a che spartire con lui. La Grecia, culla dell'Occidente, ha opposto ai Persiani secoli fa il culto dell'individualismo, certo, ma di quell'individualismo che non predestina nessuno, bensì lo autorizza, in quanto soggetto pensante ed agente, a plasmare il proprio destino entro la cornice, è pur vero, di un cosmo spesso incomprensibile nei suoi meccanismi. Ma la libertà, quella non si nega mai. Che quell'antico spirito sia presente oggi nei greci, dopo il marasma culturale ed etnico che è passato sull'Ellade dall'invasione macedone a oggi, non sapremmo dire. Certo, quaggiù tra i poveracci eredi di chi ha impresso il sigillo archetipale all'Occidente, qualcosa si è mosso. A strappi e urla, ma si è mosso. Ne tengano conto, a Teutoburgo. Che poi fu solo  un episodio.    


domenica 25 gennaio 2015

Après le déluge.

Riteniamo (io e la Spocchia) che il fumigante composto lavico costituito dagli eventi terribili di Parigi delle settimane scorse si sia sufficientemente raffreddato per poter tentare qualche analisi più distaccata del fenomeno. Ciò non toglie che la cosa ci metta in difficoltà, per almeno un paio di motivi: primo, per quanto io e la Spocchia ci interessiamo ovviamente di vicende mondiali, e due cosine sui problemucci tra occidente e oriente islamico ci siano note, siamo consapevoli che le questioni in oggetto necessitano una preparazione ferratissima per non incorrere nei miracoli di qualunquismo che giornali e internet hanno visto sbocciare sulle loro pagine nel giro di tre giorni. Secondo, appunto in virtù di quanto appena detto, temo che qualsiasi cosa si volesse aggiungere ADESSO alle opinioni già scodellate nei giorni scorsi non riuscirebbe ad aggiungere nulla di nuovo al dibattito. Tra i tanti motivi per cui la tre giorni di massacri assortiti di Parigi passerà alla storia, c'è sicuramente il fatto che si tratta verosimilmente del primo episodio di cronaca nera/politica intra- e internazionale ad essere stato coperto integralmente dai giornali online e dai social network; cioè a dire, quasi nello stesso momento in cui si verificavano i delitti era possibile raccogliere qualsiasi tipo di opinione/analisi/polemica al riguardo ai quattro angoli del globo. Per gente come noi, abituata all'idea che un volume che parla delle influenze della medicina stoica su Seneca uscito nel 2011 possa ancora definirsi "una pubblicazione recente", ovviamente la prospettiva è vertiginosa. Tutti hanno già detto tutto. Immediatamente. Quindi, cosa rimane?
Rimane forse lo spazio per analisi di seconda fila, di meta-riflessioni su quanto è già stato riflettuto. Insomma, l'unica pozzanghera in cui noi, abituati ad interpretare il pensiero dei classici, sappiamo sguazzare. Sicché, per quanto spocchioso e filologico potrà sembrare il nostro approccio, altro non abbiamo.

La nostra impressione è che sia possibile, giusto per semplificare l'immane complicatezza dello scenario, raggruppare le reazioni ai fatti in oggetto sotto 5 ombrelli:

1) Coloro che vedono nell'azione dei terroristi la riprova che l'Islam è totalmente negativo, una religione che incita all'odio, che dichiara guerra perenne all'Occidente e che va respinta in blocco, dicasi tramite espulsioni di massa di musulmani a ogni latitudine d'occidente e ritorsioni militari assortite.
2) Coloro che esigono un inasprimento dei controlli sui sospetti terroristi e una decisa stretta per quanto riguarda ingressi e transiti di musulmani sul territorio europeo, auspicando che l'Islam moderato si stacchi dagli integralisti. 
3) Coloro che la liquidano dicendo che oriente e occidente sono fatti per non capirsi, quindi non serve sprecare fiato, al prossimo attentato saremo ancora qui a dirci le stesse cose.
4) Coloro che, pur sottolineando la gravità dell'accaduto, non ritengono di dover dire: "Je suis Charlie", perché quando si fa satira su determinati argomenti bisogna pure rispettare la sensibilità di chi potrebbe offendersi, quindi diamoci una calmata tutti.
5) Coloro che obiettano sull'uso della forza e sostengono che alla violenza si risponde con la pace, del resto anche noi occidentali abbiamo le mani sporche di sangue almeno dai tempi della guerra di Troia, quindi va bene così, cosa pretendevamo dopo aver ucciso migliaia di innocenti in medioriente a colpi di guerre preventive, noi che abbiamo foraggiato Saddam Hussein e Al Qaeda finché facevano comodo contro l'Iran e l'Urss?

In sintesi, l'arco sovraesposto va da "Oriana Fallaci aveva capito tutto" a "Oriana Fallaci non ha capito niente". Chi difende a spada tratta l'Occidente come il luogo della libertà e del Bene, chi rinfaccia all'Occidente medesimo di riempirsi la bocca di alati valori, nutriti però da ipocrite manovre liberticide ai danni di tutto il resto del mondo, manovre cui si aggiunge ovviamente una più o meno palese rapacità economica nello sfruttamento dei poveri per rendere i ricchi sempre più ricchi. Di una cosa comunque siamo quasi sicuri: i fatti di Parigi non hanno "mosso" alcuna opinione, nel senso che quasi nessuno ha cambiato la sua precedente idea sui rapporti tra noi e il mondo islamico. La velocità con cui il mondo dell'internet è stato alluvionato da commenti e prese di posizione secondo noi è dovuta anche al fatto che i massacri in oggetto sono stati una sorta di enorme esca che ha fatto uscire allo scoperto le idee che ciascuno già covava da tempo, i rapporti tra Occidente e Islam essendo materia irritabilissima: l'eccezionalità dell'evento e la sua copertura mediatica pressoché integrale sono state la molla per buttare sulla pagina web della "merce" ideologica che era già lì pronta da tempo, ma che mai come in quei terribili giorni ha avuto scaffali così ampi dove venire esposta. Per dire cioè che questi eventi non hanno stimolato riflessioni nuove, ma hanno riempito l'agorà virtuale di idee già compattate in precedenza. Ciò che ci ha colpito, in definitiva, è che su nessuno dei forum da noi visitati (che non saranno stati tantissimi, ma dopo un po' le idee andavano ripetendosi con regolarità frattalica e ci sono venute anche a noia) c'è mai stato un vero "dialogo", inteso come occasione in cui, senza abbandonare il nocciolo delle proprie convinzioni, si concede tuttavia una certa ragione anche alle posizioni dell'altro, ampliando la visione delle cose, oppure ci si pone in interrogante attesa che qualcuno chiarisca dei dubbi neonati. Spesso abbiamo visto menare la clava, in altri casi, più semplicemente, le catene di post erano dei dialoghi tra sordi. Il massimo dell'apertura era: "Sì, ho capito cosa intendi, però... ecc. ecc.", che è come dire: "Tanto ho ancora ragione io...". E' chiaro che siamo già di fronte ad un coacervo religioso, politico, sociale difficilissimo da comprendere, per tacere di come le dimensioni globalizzate e ipermediatizzate di ogni conflitto culturale siano di per sé terreno di crescita per infinite varianti e sottoinsiemi dei fenomeni medesimi: rifiutare a priori le ragioni di interlocutori che la pensano diversamente non aiuta certo il cammino conoscitivo, men che mai quello che porta alla soluzione dei problemi. Dobbiamo rassegnarci al cosiddetto "relativismo prospettico", ciò per cui nessuno di noi è in grado di conoscere integralmente nulla dei fenomeni che lo circondano (figuriamoci questo dell'integralismo islamico e della lotta con l'Occidente), e quindi non resta che mettere insieme diverse prospettive per giungere alla visione delle cose, se non più esaustiva, meno parziale possibile. E' invece la parzialità il difetto generale dei 5 ombrelli sopra illustrati: restando convinti che le propria visione sia l'unica possibile, rifiutando di vedere le infinite sfumature che gli eventi e le persone che li animano possono portare su di sé, ci si condanna individualmente e collettivamente a soluzioni che incideranno solo su una faccia del problema, lasciando irrisolte le altre. Non serve predicare "tutto tolleranza" o "tutti assassini", né ci fa bene il maallorismo per cui "ma allora cosa dovremmo dire dell'invasione irachena del 2003?" o le pose "io mi dissocio" e "dovevate aspettarvelo". Sono tutti comodi scranni per non cambiare nulla, una volta esaurita l'emozione del momento. Per parte nostra, possiamo mettere sul piatto personali osservazioni che fanno più da supplemento di analisi che da vera sintesi, tutto ovviamente sotto la lente del relativismo prospettico di cui sopra, pronti cioè ad aggiornare le nostre idee nel caso avvenisse qualcosa di nuovo: non si tratta di fare le banderuole, ma di adeguarsi alla mobile sfuggevolezza della realtà con cui si ha a che fare. Sicché:
1) Trovo difficile dire, sull'onda dello sdegno, che siamo in guerra o che l'Islam ci ha dichiarato guerra. Secondo la mia visione, la guerra si dichiara tra stati sovrani, non, come in questo caso, tra gli stati dell'Occidente e una galassia di organizzazioni terroristiche che pescano sia nei Paesi islamici che tra i musulmani nati e cresciuti in Europa. So che sembra una distinzione accademica, ma non è con le dichiarazioni di pancia che si risolvono problemi complessi come questo. Del resto, giusto per fare un esempio magari un po' tirato, se nel 1978 le nostre Brigate Rosse, invece di Aldo Moro, avessero rapito l'allora presidente della Repubblica francese Valery Giscard-d'Estaing, non credo che i francesi avrebbero detto che l'Italia aveva dichiarato guerra alla Francia. Una guerriglia fatta di attentati, bombe a tradimento, incursioni armate contro gente indifesa è qualcosa di diverso da una campagna militare che prevede anzitutto lo scontro di eserciti regolari. E' più subdola, più viscida, ma diversa. E non si combatte incitando le masse all'odio come risposta. Da ciò discende che:
a) Marine Le Pen ha ovviamente i suoi calcoli elettorali in tasca per invocare la pena di morte contro i terroristi; senza bisogno di scomodare Beccaria, ci limitiamo a farle osservare che, visti gli interlocutori, la pena capitale è l'ultimo espediente da usare. In luogo di un'emozione intensa ma passeggera, essa andrebbe a provocare negli integralisti un'ulteriore incitazione alla gloria del martirio.
b) Posto pure che si voglia fare la guerra all'Islam, cosa si fa? Si bombarda a tappeto tutta l'Asia dalla Siria al Pakistan? Con che risultati? Quale precedente andrebbe a crearsi agli occhi di Cina e India? Passeremo alla storia come quelli che hanno fatto piazza pulita di un'intera civiltà, innocenti compresi?  

2) Poi i simpatici nichilisti dell'Occidente, che vivono in Occidente ma gli fa schifo tutto, quelli che in fin dei conti ritengono che noi si debba ancora scusarci per le crociate e il colonialismo in Sudamerica, quelli per cui ogni azione terroristica è in fin dei conti un fio accettabile con tutto quello che abbiamo combinato noi agli altri, ecco costoro, se hanno tanta voglia di immolarsi per le colpe dei padri e dei bisnonni, che vadano direttamente  e vedano il da farsi e soprattutto il da subirsi. Il senso di colpa perenne che certi ceti intellettuali occidentali vogliono continuare ad alimentare non mi è meno odioso del semplicismo di chi mette tutti i musulmani nel medesimo calderone: si tratta in genere di anime belle che predicano umiliazione, solidarietà, povertà, rinunce, basta che a rinunciare siano gli altri. Accettare come una sorta di contrappasso generazionale che il terrorismo semini distruzione da noi, è un'idiozia inaccettabile.  Da ciò discende che:
a) Lo slogan che alla guerra si risponde con la pace va bene per chi non ha letto Machiavelli; di tolleranza, come Monaco 1938 dimostra, si muore. Nell'auspicio che da qualche parte l'Islam moderato esista, la via intermedia tra la pace e la guerra è il dialogo, inteso non come alzare le mani di fronte all'altro dichiarandosi in torto a prescindere, ma valutando se e in che misura i settori più illuminati delle due civiltà possano, diciamo così, allearsi per fare terra bruciata attorno agli estremisti; certo però il dialogo deve essere biunivoco, altrimenti le trombe guerrafondaie saranno non silenziabili; col che intendo che nessuna delle due parti deve sentirsi in atto di abbassare la testa nei confronti nell'altra, ma nemmeno al contrario atteggiarsi a parte offesa che aspetta l'umiliazione dell'interlocutore. Non si tratta di tendersi la mano fingendo che il male non esista: bisogna guardarsi dritti negli occhi e dire: "Vogliamo finirla o no?", senza la solita retorica del "veniamoci incontro e annulliamo le differenze". Ma teniamole pure, le differenze: non credo che esse intralcino un percorso comune di risoluzione di un problema che provoca disastri in serie su ambo le sponde.
b) Avremo, dalla nostra parte, uomini sufficientemente aperti da togliere il dito da grilletto ed entrare nella forma mentis della controparte per capire dove attaccare chirurgicamente l'integralismo? E dall'altra parte, avremo esponenti dell'Islam che sappiano andare oltre le condanne pubbliche delle azioni terroristiche e siano disposti a mettere a disposizione nostra una conoscenza del mondo musulmano e delle sue complesse varianti che noi non potremo mai avere, in sostanza spiegandoci come e dove colpire il bubbone per salvare il corpo sano? Perché, al di là dei buonismi di facciata, ogni società sa sempre dove si annidano le sue cisti e come scovarle. Di questo alla fine si tratta: alla guerriglia terrorista non si risponde con le bombe a grappolo; non ci sono da bombardare, fino a raderle al suolo, Amburgo e Dresda, per fiaccare la resistenza dei nazisti. C'è da agire solo sulle cellule impazzite, grandi o piccole che siano, augurandosi che esse siano anzitutto sconfessate dalla stessa civiltà che dicono di voler rappresentare. Mi rendo conto che detta così sembra fin banale, e non lo è, ma gli altri tipi di reazione al terrorismo sappiamo dove hanno portato. Certo però l'intelligence occidentale da sola non capirà mai dove mettere le mani: ci vuole il connubio tra noi e chi dall'altra parte ha davvero a cuore la pace, e allora le estreme verranno isolate.

Questa la ricettina. Vorrei dire però due paroline da spocchioso filologo classico a coloro che, si accennava sopra, vedono la spedizione greca contro Troia (sia quella storica che quella mitica) come una sorta di "atto di nascita" di tutte le nequizie dell'Occidente. Io credo che, se proprio si vuole trovare qualche archetipo, e non si voglia scomodare come al solito Odisseo/Ulisse, si potrebbe prendere in considerazione ciò che è narrato nella fabula Aristaei.

[riassunto per i non addetti ai lavori: racconta Virgilio (Georgiche, libro IV, versi 315-558) che il pastore Aristeo, esperto tra le altre cose nell'allevamento delle api, un brutto giorno trovò il suo sciame defunto; sconvolto da ciò, chiese lumi alla madre Cirene, la quale lo inviò a chiedere lumi all'indovino Proteo: costui gli rivelò che l'ira congiunta di Orfeo e delle ninfe compagne della di lui sposa Euridice avevano provocato la morìa delle api. Aristeo, infatti, aveva in passato tentato di usare violenza a Euridice ed essa, per sfuggirgli, non si era avveduta di un serpente nascosto tra l'erba che l'aveva morsa e uccisa; disperato, Orfeo era sceso nell'Ade e con la forza del canto aveva commosso Persefone, regina degli  Inferi, che gli aveva concesso di riportare tra i vivi Euridice, a patto di non voltarsi a guardarla finché non fossero tornati in superficie. Orfeo non resistette e si voltò, perdendo la sposa per sempre. Disperato per la seconda perdita, egli si abbandonò al dolore più nero, rifiutando qualsiasi altra compagnia femminile; fu per questo che le donne ciconie, invasate da Bacco, catturarono Orfeo e lo fecero a pezzi. Saputo tutto ciò, Aristeo tornò da Cirene che gli spiegò come organizzare un sacrificio che placasse l'ira di Orfeo ed Euridice; tale sacrificio, poi definito bugonia, prevedeva l'uccisione di buoi da cui poi sarebbero rinate le api].

Vedo nella sublime tragicità dell'episodio molto Occidente: Aristeo, che la tradizione mitologica greca ha sempre considerato un eroe della civiltà, scopritore di infinite tecniche agricole, risolutore di pestilenze, uomo insomma legato alla produttività e al progresso, "cade" in una passione amorosa deleteria che causa a sua volta la rovina di chi, come Orfeo, non ha colpa alcuna nell'aver perso la sposa; Orfeo, però, diventa colpevole nel momento in cui, di fronte all'enorme privilegio di poter riportare tra i vivi una defunta, rovina tutto anche lui per un puro istinto. Incolpevole all'inizio, lo diventa successivamente e ne paga fino in fondo le conseguenze. Aristeo, che è stato il motore della sciagura anzidetta, salva però la propria situazione placando con un sacrificio le sue stesse vittime. E' possibile dire che uno dei due protagonisti della storia sia il buono e l'altro il cattivo? Ovviamente no: uno si redime dopo aver causato il male, l'altro si rovina dopo aver avuto l'occasione (non scontata, né del tutto meritata, visto che legioni di gente altrettanto danneggiata senza colpa avrebbero desiderato essere al suo posto) di rimediare ad un dolore incolpevole. Alla fine, la vita del nuovo sciame di Aristeo nasce su un sostrato di storie mortifere. Eppure Aristeo andrà avanti. Io e la Spocchia vediamo qui una riproduzione fedele della nostra civiltà: lo sviluppo culturale, che si è sovrapposto allo stato di natura, ci ha consentito progressi mirabolanti in tutti i campi dell'esistenza, eppure su quanti conflitti poggia questo stesso progresso? Noi possiamo guardare a noi stessi come agli inventori della democrazia, della filosofia (pace gli indianofili), del teatro, ma più avanti delle tecnologie che hanno fatto compiere all'umanità il più grande salto qualitativo dalla rivoluzione neolitica; e certo, siamo i discendenti di civiltà che hanno insanguinato il suolo proprio e altrui con le guerre di religione e con quelle di espansione, nel secolo scorso abbiamo regalato al mondo due conflitti mondiali con annessi stermini etnici che ancora oggi ci paiono inconcepibili, ma sono accaduti. La nostra civiltà è quella dell'uomo come essere grandioso e terribile. Possiamo essere allo stesso tempo orgogliosi del nostro progresso e atterriti dal dolore su cui esso poggia; celebriamo le libertà individuali e vediamo ragazzine distruggersi di anoressia perché non riescono ad adeguarsi a certi modelli estetici; curiamo malattie fino a pochi anni fa senza speranza e poi scopriamo che la prima casa farmaceutica del mondo deve il grosso del proprio fatturato alla vendita degli psicofarmaci. Ci creiamo le maggiori occasioni di felicità e sappiamo distruggerci da soli come nessun altro. Eppure, a parte casi isolati, neppure il critico più critico dell'Occidente prende la cittadinanza, poniamo, iraniana. Sta qui, con noi, che dell'Occidente siamo gli osservatori inquieti, ma non mai i rinnegatori. In quest'angolo di mondo sbocciano le occasioni più alte di sviluppo umano, ma tante voci si levano per accusarci di fiorire ai danni degli ultimi del pianeta. E' la tragedia dello sviluppo dell'uomo, così ben esemplata dal mito anzidetto: la libertà di autodeterminarsi porta alla rottura delle costrizioni della natura attraverso le conquiste, psicologiche e materiali, della cultura. E siccome libertà chiama libertà, l'uomo vorrebbe liberarsi della sua animalità innata, ma non può, perché non sarebbe più uomo: egli non può che portare avanti il proprio sviluppo culturale sotto il segno della contraddizione, rompendo i sigilli della natura ma scontrandosi contro il fatto che questa rottura non è uguale ovunque. Chi progredirà di più, chi  meno, chi niente. In più, progredito o meno, l'uomo dovrà sempre fare i conti con le sue pulsioni incontrollabili: chi l'ha fatto fare al civilissimo e civilizzatore Aristeo di incapricciarsi di una ninfa a caso, essendo lui del resto già sposato e lei pure? Ma è successo. Non c'è livello di progresso che ci metta al riparo dalle nostre imperfezioni, eppure di bugonia in bugonia riusciamo sempre a salire qualche gradino evolutivo, portandoci appresso trionfi e catastrofi. Questo noi siamo. Tutti. Ed è per questo che, agli occhi degli altri, sentiamo a volte di esibire uno stile di vita non condiviso che vorrebbero farci ritracciare e altre volte ci pare invece che essi desiderino proprio essere come noi, anche a costo di usare la forza per privarci di ciò che abbiamo. Ci sentiamo dire che la democrazia è il peggiore regime politico esclusi tutti gli altri e che però siamo stati sciocchi a volerla esportare in un mondo abituato fin dai tempi dei Sumeri a concepire l'individuo come semplice "possesso" del suo sovrano e/o del proprio dio. Dicono che siamo al crepuscolo dell'Occidente; dicono anche che solo dalle ceneri dell'Occidente nascerà un nuovo Occidente, magari un po' più a Oriente, ma sempre Occidente.
Questa è la sostanza del nostro essere, ed è tutta riassunto nel mito virgiliano: vita, morte, pietas, empietà, sensualità delle ninfe e laboriosità divina della api. Se vogliamo progredire ulteriormente, rassegnamoci a non pretendere la perfezione in una dimensione ove essa non è attuabile; evitiamo le posizioni preconcette; separiamo il più possibile l'ape dalla ninfa, che pure nell'immaginario pre-greco erano una sola creatura e procediamo per passi prudenti e razionali, anche se nessuno potrà garantirci dalle future cadute. Essere consapevoli che esse siano sempre in agguato è tuttavia il modo migliore per desiderare di evitarle.    

domenica 18 gennaio 2015

E dagli con il pallottoliere..

Troppo impegnati tra attacchi a Charlie Hebdo e la scelta del successore di Napolitano, pochissimi si saranno accorti dell'ennesima sciocchezzuola a tema scuola partorita da uno dei pensatori di economia che affollano i fondi del Corriere. Giorgio Abravanel, che in altri contesti abbiamo pure apprezzato, si è fatto prendere da un attacco di giavazzite e ha opinato sulla riforma della scuola di Renzi, nello specifico al capitolo assunzioni. Dice il pensatore che il piano di immettere in ruolo 150.000 precari o giù di lì in un sol colpo a settembre 2015 manda a farsi benedire la meritocrazia. Suppongo che il pensiero di fondo sia che si tratta di troppa gente tutta insieme, senza poi essere sicuri che siano tutti bravi bravi. Si sa, nelle Graduatorie ad Esaurimento, autentica palude di sofferenza e umiliazione per generazioni di aspiranti insegnanti di ruolo che davvero non si meritavano di essere trattati come vacche quali sono stati trattati, alberga gente che va dai 30 anni e qualcosa anni fino ai 60 e oltre: storie, percorsi scolastico-universitari, esperienze lavorative diversissime, temperamenti più o meno adatti alla docenza, capacità e competenze più o meno sviluppate. Si sa. Ma si sapeva anche quando queste graduatorie furono riempite con coloro che ora vi abitano. E nessuno fiatò. Si disse: "Vabbe', gente che perlomeno ha l'abilitazione, qualcosa sapranno fare". Nessuno fiatò nemmeno quando ci si accorse che esse graduatorie (anni 2001-2008) si rimpolpavano annualmente, per le medie e le superiori, di non meno di 10-12000 docenti all'anno sfornati dalle Scuole di specializzazione, laddove per l'infanzia e la primaria si arrivava dal canale universitario di Scienze della Formazione primaria. Nessuno, in quei magnifici anni, si chiese se davvero il sistema poteva assorbire tutti questi ingressi, se cioè fosse possibile per costoro addivenire prima poi dalle graduatorie al posto di ruolo a tempo indeterminato. O se anche qualcuno se lo sia chiesto, evidentemente non gli furono dati gli spazi che oggi invece si riservano sui quotidiani a chi spara a casaccio sulla scuola. 
Poi fu la Gelmini e il suo mantra: "Non possiamo continuare ad illudere i laureati" e vai con la chiusura delle Scuole di specializzazione, i tagli, la presa in giro continua della categoria, l'idea che uno non può pretendere, solo per aver studiato 4-5 anni più due di abilitazione più esperienze plurime in cattedra, di volere ANCHE il ruolo. Ma scherziamo? C'era da equiparare la professione docente a quella di un qualsiasi settore della produzione, compreso il fatto che oggi mi servi e domani mi sbarazzerò di te perché devo fare cassa, se ti aspettavi qualcosa di più degli incaricucci annuali, beh, mi spiace, ti hanno fatto credere il falso, io non c'entro.
Questo, e molto altro, fu la Gelmini. E qui sì, applausi tutt'altro che timidi giunsero dai pensatori col pallottoliere: era ora di risparmiare un po'. Come? Coi tagli. Ovvero, trovato il modo di ridurre le ore a certe materie (latino, per esempio, "che tanto non serve") e di alzare il numero di alunni minimo per classe, ovviamente si sono creati esuberi in organico. Forse che in tal modo sarebbero venuti a galla gli insegnanti incapaci sì da potersene sbarazzare? Ovviamente no: 'esubero', nella scuola, significa che, se c'erano 10 cattedre quest'anno, l'anno prossimo ne avremo 8; ergo, gli ultimi due insegnanti della graduatoria interna della scuola X per la classe di concorso Y perdono il posto. E per essere gli ultimi due non vuol dire che si insegna peggio degli altri, ma si ha semplicemente minor anzianità di servizio, o non si hanno figli piccoli, o mancano altre voci che danno punti. Voci, si capisce, che non indicano la capacità didattica. Era dunque davvero possibile che la mannaia gelminiana facesse finalmente giustizia ed eliminasse il marcio della scuola? Macché. Rallentò il turnover, questo sì, lasciando spesso in cattedra gente ormai scoppiata a danno di giovani motivati e bravi.
Resta comunque inteso che il criterio puramente numerico dei tagli di MaryStar non portava con sé alcun parametro qualitativo: erano soldi da risparmiare e basta. E, ripetiamo, i bocconiani e tutti gli altri come loro applaudivano. Oggi Renzi evidentemente affronta il problema dal lato opposto, con l'intenzione di svuotare le graduatorie e passare ad un sistema più snello (abilitazione+concorso biennale) che dovrebbe evitare il riformarsi del bubbone del precariato graduatoriale. Vedremo, il mondo della scuola è spesso imprevedibile. Ma è chiaramente l'obiezione di Abravanel che fa sorridere, e non tanto al punto 1 (150.000 sono troppi), su cui si potrebbe obiettivamente discutere (penso a chi sta in fondo alle graduatorie e non ha nemmeno un mese di servizio); è ridicolo il punto due del ragionamento: siccome non possiamo rischiare che mine vaganti passino di ruolo, sarebbe meglio assumere solo 75.000 precari, gli altri dovranno misurarsi col concorso, primo dei quali verrà bandito, pare, questa primavera. Così si darà il segnale della selezione per capacità.
Capito, i teorici della meritocrazia? Che criterio qualitativo è "metà"? Quindi gli immessi da graduatoria saranno incapaci ma con esperienza e gli altri tapinelli dei bravi ma con poca anzianità? Di nuovo l'idea che posizione in graduatoria e relativo punteggio siano l'unica discriminante? Ricordate infatti che, posto pure di applicare la geniale "metà" proposta dal suddetto, l'unico indicatore per farla saltar fuori sarà ancora e solo il punteggio in graduatoria: fino a 120 punti passerai di ruolo, poniamo, sulla classe di concorso A060, ma dovrai sentirti più che altro uno promosso per inerzia, mentre quello con 119 si roderà il fegato, però avrà tutto il tempo di far vedere quanto vale col concorso. Ma non sono i 120 o 119 punti a dirci che uno è più o meno bravo dell'altro! Mettetevelo in testa, non sono i punti a fare il buon insegnante, è la didattica erogata giorno per giorno, sono i risultati a medio e lungo termine che gli alunni conseguono non solo in termini di voti e competenze, ma anche di crescita personale. Cose che, certamente, spesso restano più che utopie se in cattedra ci vanno e ci stanno gli incapaci. Solo che la capacità non è un dato a priori, la si verifica in corso d'opera. Lì, semmai, andrebbe usato lo strumento del taglio in organico, allorché il docente disutile è sotto gli occhi di tutti, altro che punteggi. Ma si sa, lì la questione è apertissima.
Poi il manager-scrittore si incarta e dice sia che ci vuole un concorso sia che le scuole devono scegliere liberamente gli insegnanti. Bene. Allora non serve il concorso, basta l'abilitazione. 
Resta comunque sempre l'idea di voler appiattire la scuola ad un ruolo univoco: quello di palestra tecnica per futuri tecnici. "Non importa quello che si insegna, ma come si studia". Cioè? Lo studio dev'essere una sorta di allenamento senza palla che deve sviluppare metodologie senza contenuti? Niente crescita umana, ma solo 'abilità'? Soft skills, dice lui. Certo: è vero che non servono solo storici dell'arte, ma anche gente che sappia gestire in modo manageriale un museo. Ottimo. E le abilità gestionali si imparano a scuola. Oddio... sì, anche, ma proprio per questo esistono scuole diverse a seconda delle attitudini individuali. Voglio dire: vogliamo tenere fissa l'idea che il compito della scuola è la formazione non solo del bravo manager ma anche della persona? Che la cultura, intesa come capacità di pensare la complessità delle cose in modo critico secondo una prospettiva più universale rispetto ai casi immanenti, è un bene immateriale ma solidissimo? Perché deve sempre passare l'idea che una cosa esclude l'altra? "Facciamo una nuova riforma Gentile, adatta all'economia oggi". Facciamola: per sfornare solo furbetti dei derivati, affaristi, maghi Merlini della finanza? Gente addetta ai servizi, dice lui, che sappia di tecnologia. Perfetto. E l'umanità? Robottini bravi ad eseguire, programmati con le soft skills? La scuola, quindi, dovrebbe essere un enorme impianto di programmazione cerebrale?     
Intendiamoci: la scuola italiana ha problemi strutturali ormai annosi e calcificati. Mutamenti strutturali ce ne vogliono eccome. Attenzione però al fumus della rivoluzione totale, alla distruzione di tutto il vecchio e alla sua sostituzione con tutto il nuovo: si rischia di finire nelle stagione del Terrore e poi trovarsi Napoleone imperatore. Fuor di spocchiosa metafora storica, la trasformazione dei licei in accademie delle soft skills e basta è uno scenario che mi inquieta anche più della bonaccia attuale. I veri problemi, per me, sono altri, e mi pare strano che i guru della meritocrazia non ne parlino, forse perché a scuola non ci mettono piede, ma è solo un'ipotesi... . Uno su tutti: la possibilità per la scuola di essere nuovamente selettiva e non schiava di famiglie infoiate dalla presunta bravura del figlio che pretendono le promozioni a colpi di ricorsi al TAR; selettiva, certo, se affidata a docenti che sanno il fatto loro; e tuttavia va abbandonata l'idea chela scuola faccia giustizia delle disuguaglianze sociali: a quelle deve pensare lo Stato per altre vie. Io non posso mandare avanti gente per pietà o per risarcimento morale se vedo che non imparano, altro che soft skills. E spero che l'idea abravaneliana non sia che le soft skills siano democratiche in quanto alla portata di tutti. Sarebbe l'esatta negazione della meritocrazia. A monte di tutto va recuperata la severità, che non vuol dire umiliazione dello studente e sua distruzione umana a colpi di ablativo assoluto: si tratta di stabilire asticelle di rendimento e non muoversi da lì. Chi non ci arriva, faccia altro. Sarà antidemocratico? Non so, credo che prendere in giro uno studente, illudendolo di avere competenze che non ha e poi mandarlo a sbattere contro il fallimento lavorativo sia ben peggio. Poi potremo collocare su quelle asticelle tutte le skills che si vogliono, ma sia chiaro che mai si dovrà buttare a mare la preparazione umanistica per sostituirla integralmente con i saperi tecnico-operativi. E non lo dico per sussulti di neoclassicismo: eliminare le materie umanistiche significa far venir meno la promozione di una componente strutturale del nostro stesso essere, come tagliare le ali ad un uccello. Abbiamo già visto cosa è successo quando l'umanesimo è stato soppiantato dall'idolatria della tecnica (senza contare quando vi si è prostituito). Se si vuole ripetere l'esperienza, poi non ci si lamenti di un mondo in cui tutti sapranno eseguire e nessuno saprà vivere.   

Venticello di elezioni...

S'avvicina il Quirinodromo, neanche due anni dopo il precedente, e che precedente. Vergogna a 360° per l'indegna squacquerata parlamentare che portò a bruciare due candidati certi per finire con la rielezione del vecchio Giò. Oggi Renzi dice di avere tutti gli assi giusti da calare, quindi non si aspetterà certo che noi lo si voglia disturbare con alcuni consigli non richiesti. Infatti glieli diamo.
1) Matt, je t'en prie, non mettere un tecnico al Quirnale. Non sono epoche da gente di passaggio che non doveva neanche essere lì, ma ce l'hanno messo e ci sta. Queste cose vanno bene finché le dice Luca Argentero quando fa la parte dell'attore per caso, ma al Quirinale ci vuole uno che conosca molto bene corridoi, usci, alcove, nicchie, tende e tavolini del palazzo e della politica italiana tutta. In un'età del ferro come la nostra ci vogliono anche quelle piccole o grandi astuzie, che solo un parlamentare può aver sviluppato, per saper gestire una politica che si dimostra sempre più personalistica e riottosa alle normali corsie costituzionali.
2) Che poi, Matt, osservazione che già feci l'altra volta, che figura farebbero i 1009 grandi elettori ad eleggere uno che non è neanche lì nell'arengo? Lo so, tu stesso sei a Palazzo Chigi senza essere in Parlamento, ma è diverso. Eleggere un capo dello Stato fuori dal Parlamento è come dire agli italiani: "Scusate, facciamo così schifo che abbiamo dovuto pescare altrove". Ci sarebbe da essere orgogliosi di ciò? E come si sentirebbe legittimato un Presidente "esterno" innalzato alla carica da gente così?   
3) Che risolviate la cosa alla prima, quarta o sesta votazione, Matt, mi raccomando: evitate di ricadere nella palude dell'elezione di Leone. L'Italia è sotto gli occhi dell'Europa tutta e non può permettersi simili figuracce.
4) Che risolviate in tempi brevi, Matt, sia però chiaro che il nuovo Presidente deve avere una valanga di voti. Stavolta non basteranno (moralmente, intendo) i 543 voti di Napolitano I. Qui ci vogliono (almeno) gli 832 voti di Pertini
5) Io non so se tra Montecitorio e Palazzo Madama possa spuntare un uomo capace di coagulare il consenso di molta parte dello Stivale. Venti e passa anni di politica ridotta a tifoseria certo in questo non aiutano. Quindi, esclusi tutti gli altri, io vedrei bene Casini. Cioè: il personaggio spesso pare più innamorato di se stesso che del suo ruolo, però ha esperienza trentennale dei meandri romani, è stato allievo di un pezzo da novanta della DC come Forlani, è stato ex alleato di Berlusconi, ex Presidente della Camera, cattolico non sgradito alla sinistra per effetto della sua increspata vita matrimoniale, piacente quanto basta, neanche sessantenne. Certo, spesso dà l'impressione di parlare a lungo e dire poco, ma in questo ha ottimi compagni di viaggio. Però, però, lo vedrei in fin dei conti come un efficace lansoprazolo, o magaldrato di sodio vedete voi, per spegnere l'acidità diffusa nei corridoi della nostra politica. All'estero resterebbero positivamente impressionati da un eccellente diplomatico del buonsenso quale lui sa essere, né ci si dovrebbero aspettare da lui derive picconatorie alla Cossiga o pesanti interventi sul campo di gioco come fece Scalfaro. Si sa, non è che, quando decisero di elevare Pertini al seggio quirinalizio, i socialisti pensassero di avere per le mani chissà che genio, anzi di lui dicevano che aveva la testa tutta d'osso, per intendere che grandi dee nel cervello non gliene frullavano, e le poche che aveva erano per lui inscalfittibili. Eppure...          

venerdì 2 gennaio 2015

Coraggio, è andata...

Ieri sera, dunque, Napolitano si è congedato ufficialmente dalla nazione da lui presidenziata in questi otto anni e spicci. Si capisce che il suo discorso non poteva accontentare tutti, ma questa è storia di tutti i discorsi presidenziali, perlomeno da Cossiga in giù, per quanto io possa ricordare di persona. Semmai ci sono dei dettagli estetici e delle paurose amnesie collettive che questo discorso porta con sé. Analizziamole, giusto per mandar giù il cenone e il post cenone.

1) Il colpo d'occhio: ecco, va bene la cornice istituzionale, la serietà della situazione, il senso dell'addio, però... boh, non avevano un direttore della fotografia, iersera, al Quiry? Napolitano era flashato da quella luce piattissima che lo faceva sembrare a tratti un extraterrestre. Sguardo fisso vero l'obiettivo, occhi sul gobbo, viso inespressivo... spiace dirlo, ma sembrava uno di quei prigionieri delle organizzazioni islamiche quando parlano alla telecamera per chiedere di essere liberati e maledicono i propri governi per aver causato la guerra. Oddio, un filino ostaggio di una situazione sgradita Napolitano lo è stato, in questo biennio. Che in cuor suo abbia maledetto quei mille e passa capoccioni che non hanno saputo trovare un nome condiviso nel 2013, l'abbiamo già ipotizzato. Ciò detto, quello di iersera era il volto del disagio, dello sfinimento, di una sottile disillusione nascosta sotto il manto dell'ufficialità. Il discorso sparato a mitraglia, senza pause, come di uno che non vedesse l'ora di levare le tende; le pochissime increspature espressive, che hanno reso il grosso della concione qualcosa di più vicino alla lettura dell'elenco del telefono; quella voce, che si arrochiva negli ultimi cinque minuti e ci faceva temere un collasso su due piedi del discorritore. Mah, l'effetto complessivo è stato bruttino. I 90 anni si vedono tutti.
2) Le cose dette: Giò ha esordito dicendo che sarebbe stato un discorso diverso dal solito. Cosa ci sia stato di diverso non saprei. Forse l'aver detto chiaro e tondo che nessuno si sogni di rivederlo lì al prossimo S. Silvestro. Per il resto, un rapido bilancio del fatto e del non fatto, qualche accenno all'attualità, agli italiani che funzionano nel mondo, l'invito a tutti, giovani e vecchi, a fare del proprio meglio per far ripartire l'Italia. Ecco, più che un discorso, sembrava la scaletta di un discorso. Non che noi si preferissero discorsi di 45 minuti, 21 vanno più che bene. Però a quel punto, invece di dire di tutto un po', avrei scelto due temi irrinunciabili (rapporti con l'Europa e questione morale, per dire) e avrei sviscerato quelli. Così abbiamo avuto l'impressione di una frettolosa lista della spesa, gravida di partecipazione personale senza dubbio, ma comunque troppo affastellata.
3) Le reazioni: Renzi non poteva che dire #graziegiorgio, e certo, da sponda cdx, più d'uno avrà recriminato che Giò non ha nemmeno per un secondo esitato a conferire l'incarico di Presidente del Consiglio ad uno che neanche siede in Parlamento; almeno con Monti si ricorse all'escamotage di nominarlo senatore a vita giusto due giorni prima di fiondarlo a Palazzo Chigi in sostituzione del non più maggioranzato Berlusconi. Vero. Il duo dei raffinati parlatori Brunetta-Salvini opina che Napolitano non ha fatto un grammo di autocritica sulla legge Fornero, né ha parlato di immigrazione, marò, mancata conclusione della riforma del sistema elettorale, crisi tuttora persistente del nostro Paese. Brunetta ha poi rimarcato la parzialità di Giò, a suo dire Presidente schierato sempre e solo con la sinistra. Tutte posizioni lecite, ma ribadiamo l'adagio di ieri sera: chi ce l'ha messo lì, il Nap? Volendo ragionare secondo il sistema voltafrittata, di cui Brunetta è maestro, potremmo dire che ci voleva tutta a che Napolitano non fosse di parte, visto che nel 2006 l'hanno votato solo i parlamentari di centrosinistra; forse che la rielezione anche coi voti del centrodestra, rielezione subìta più che accettata, ricordiamocelo, avrebbe sparzializzato l'uomo? Lamentele, quelle brunettiane, francamente tardive. Legge Fornero? Odiosissima, specie dalle nostre parti del mondo della scuola, sia chiaro: pretendere che maestre di 67 anni corrano dietro a classi di 30 seienni, o che professoresse di 65 riescano a interagire con adolescenti ormonalizzati al grido di : "Virgilio è bello" è PURA FOLLIA. Ma anche lì: perché si è giunti a Monti? Perché Berlusconi ha DILAPIDATO un vantaggio numerico parlamentare mai visto in tutta la storia repubblicana fino a ridursi a mendicare i voti di Scilipoti e Razzi? Certo, è stato molto più comodo aizzare il Paese contro la classe insegnante e far passare tra grida di giubilo degli ignoranti i tagli della Gelmini, però alla fine l'aver rimandato altre riforme, ben più strutturali, l'aver agito trascurando i segnali di disagio che venivano ANCHE dal mondo che vota centrodestra, e che infatti ha voltato per il 60% le spalle a Silviuccio, ebbene, di tutta 'sta roba ha colpa Giò? Noi stessi, in post ormai remoti, opinammo che non è possibile far cadere un governo a colpi di spread, ma il governo di Silviuccio agonizzava già per conto suo, vittima della sindrome da yesmen di persone che non sono state in grado di fargli correggere la rotta prima del naufragio. Berlusconi lamentò di essere stato sabotato, e disquisì di quanto sarebbe meglio per un premier decretare per vie immediate senza le doppie, triple, quadruple letture delle due Camere che tutto rallentano. Beh, anche in questo caso dipende da cosa si vuole decretare: a costo di sembrare monomaniacale (massì, è Capodanno, su...), la legge Gelmini che ha ammazzato scuola e università è passata a tempo di record, unica vera "riforma" partorita e portata a compimento dalla maggioranza del 2008; lì non ci sono stati rallentamenti o insabbiature, si è proceduto a spron battuto, senza calcolare minimanente le conseguenze di un piano indiscriminato e punitivo, volto solo a fare cassa senza alcun riguardo per la qualità della "nuova" scuola che sarebbe nata dalle macerie di quella strage. Ebbene: risulta che Giò abbia rinviato la legge alle Camere, rifiutandosi di firmarla? No, ma non per questo oggi io e tutte le vittime di quella follia malediciamo l'ormai quasi ex-Presidente. E se Berlusconi non ha avuto le stesse performance legislative in altri comparti, evidentemente il problema non sta nel Quirinale, ma in una strategia politica che, a parte il fuoco di fila contro un obiettivo facilmente demonizzabile, non ha poi saputo adire le vie giuste per attaccare alla base i veri problemi del Paese. E Giò ha preso atto. Il bello e il brutto della politica sono in Parlamento e a Palazzo Chigi: Napolitano ha solo tratto conclusioni sulla base dei fallimenti delle nostre coalizioni, né lui, uomo appunto "di parte", si è mai sognato, nel 2008, di spronare Prodi o chi per esso a trovare una soluzione politica che scongiurasse il ritorno alle urne dopo solo due anni. Macché: defunta l'Unione, nuove elezioni e vai con Silviuccio. Forse Scalfaro avrebbe fatto un tentativo. Napolitano, no (peraltro portando così alla lunga all'abolizione del piano straordinario di immissioni in ruolo previsto dall'allora Ministro dell'istruzione Fioroni, che con 150.000 assunzioni avrebbe risolto già allora ciò che Renzi si appresta a risolvere l'anno prossimo - ok, la smetto). Ha visto e ha fatto quanto gli toccava fare: se ha supplito la politica "vera", ciò è avvenuto perché l'inettitudine dei politici gliel'ha permesso. E fa sorridere che Brunetta rinfacci a Napolitano la mancata conclusione dell'iter di riforma della legge elettorale. Dico io, René caro: ma 'sta porcata del porcellum, di cui voi oggi parlate come fosse una deiezione bovina calata dall'alto, non l'avete inventata voi? Ah, ma vi eravate ispirati al sistema elettorale delle regionali in Toscana? Quindi è colpa della Toscana? 
Ecco. Poi lamentiamoci, eh?