Motto


"Chi scende, non sale; chi sale, non zucchero; chi scende, zucchero".



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sabato 8 dicembre 2012

Letti per voi: S. Bonvissuto, "Dentro",

DOTTO PREAMBOLO

Giusto perché tra poco finisce il  mondo, vorrei andarmene lasciando almeno agli extraterrestri che resteranno dopo di noi una recensione da leggere. Vi regalo quindi un rapido e croccante commento ad un libero di fresca uscita per Einaudi, "Dentro", autore Sandro Bonvissuto, laureato in filosofia e cameriere in un'osteria romana. Ho visto di persona l'autore al Festival della Letteratura di Mantova lo scorso settembre, protagonista di un incontro-intervista con Michela Murgia a Palazzo San Sebastiano. Il tema dell'evento era il concetto di "Noi", ed è stato sviscerato in una pluralità di prospettive, incentrate in sostanza sul problema della percentuale di Io che ciascuno deve devolvere al Noi senza che essi ci condizionino fino a farci perdere la nozione della nostra irripetibile individualità.
Sì, inevitabilmente discussioni simili finiscono per arenarsi nella spiaggia degli Assoluti, del resto si tratta di nozioni che implicano una discesa alla radice stessa del nostro essere e per questo le risposta finale mancherà sempre, dato che conoscere il proprio Io nella sua totalità equivale alla pretesa di far quadrare il cerchio, figuriamoci quando si tratta di rapportare l'Io al Noi.
La discussione è comunque scivolata via bene, con frequenti interventi da parte del pubblico e una gestione del botta e risposta da parte della Murgia che ha rivelato grande disinvoltura. Non c'era quell'aria paludata di certe interviste in cui domandatore e risponditore vanno avanti un'ora a compiacersi di quanto sono intelligenti e pazienza per il pubblico. Bonvissuto, poi, nonostante tremasse come una foglia tutte le volte che si trattava di leggere un piccolo estratto del romanzo per continuare la discussione, ha dimostrato una discreta dose di ironia, specie nei confronti di un paio di damazze del pubblico le cui domande erano abbastanza irritanti.   

DUE PAROLE SUL PLOT

Visto quindi l'esito dell'incontro, mi sono procurato il romanzo, la cui lettura è abbastanza scorrevole (si tratta di 167 pagine non enormi) e permette quindi di cogliere con uno sguardo d'insieme il senso delle vicende narrate, che sono organizzate à rebours.
Si tratta infatti di una storia in 3 capitoli, narrati in prima persona, che parte dal momento in cui il protagonista, che parla in prima persona, viene arrestato e portato in prigione, per uscirne dopo qualche mese; nel secondo capitolo, si rievocano l'adolescenza del protagonista, il suo primo anno di liceo e l'incontro con quello che diventerà il suo migliore amico, il cui nome, come del resto quello del narratore e del padre del narratore, non sarà mai rivelato: i due diventeranno un'unità inscindibile, arrivando a fidanzarsi con la stessa ragazza, divideranno tutto il proprio tempo assieme, così da venir pure bocciati assieme; nel terzo capitolo, siamo portati all'infanzia del narratore, in una non precisata località di villeggiatura presso una pineta in riva al mare (di Ostia, vorrei azzardare, ma conta poco): ci viene descritta la giornata di una sorta di rito di iniziazione, allorché il protagonista, escluso dalla consueta sortita in un indefinito luogo sabbioso lì vicino perché i suoi due amichetti hanno voluto andarci in bici e lui non era capace di guidarla, chiede a suo padre di insegnarglielo, così da poter essere di nuovo accettato in tutte le future scorribande del piccolo gruppo (3 contando lui); il padre, senza farselo ripetere, soddisfa il desiderio del figlio e già quella sera il piccolo ha imparato a sbiciclettare.

ANALISI FINE FINE

Già da questo riassunto si comprende l'orientamento minimalista impresso alla narrazione: la vicenda del carcere è descritto nei suoi aspetti più miseri, una miseria però entro cui si possono aprire squarci impensabili di umanità, ma la descrizione non sfocia in alcuna vera denuncia sociale, o perlomeno è lasciato al lettore il compito di indignarsi. Non è chiarissimo perché il narratore è finito dentro, però non siamo in circostanze kafkiane (anche se Kafka è citato a pag. 21), poiché capiamo che lui sa bene di aver combinato qualcosa di contrario alla legge. Ciò che egli vede all'interno non è una parata di eroi del male o persone accecate da chissà quale cattiveria, ma si sceglie di descrivere l'umanità più emarginata, a volte bizzarra, che pare messa lì più che altro per un'incapacità di fondo a star fuori. La dialettica fuori/dentro è del resto il perno di tutto il libro, ed è inevitabile, visto il titolo. Il protagonista è finito 'dentro' per un certo reato, ma sopratutto cade 'dentro' di sè, poiché il confronto con la massa di derelitti che si muove nel buio, nell'indifferenza e nella sporcizia di questo carcere senza nome gli fa toccare con mano tutte le sfumature della disumanizzazione che è latente dentro ognuno di noi: novello Dante (sì, ci siamo capiti...) egli non passa accanto ai suoi compagni come se girasse per uno zoo, ma partecipa di tutte le loro sventure, solo senza compassione. La compassione, però, manca non perché egli si senta ingiustamente mischiato a questa sub-umanità, quanto perché l'esperienza del carcere, a lungo andare, lo porta a convincersi dell'inutilità di certe esistenze, constatazione fatta senza tirarsi fuori dal mucchio, perlomeno non del tutto. Certo, ritornare da quel girone infernale in cui la percezione del tempo si annulla, non può lasciare uguali a prima: all'uscita dal carcere, il narratore incontra suo padre che è venuto a prenderlo, ma quando gli dice che temeva che non avrebbe trovato nessuno ad aspettarlo, il padre non replica. Si comprende che dietro questo silenzio può starci di tutto: può intendersi come il fatto che non è neanche da mettere in discussione che un padre non vada a riprendersi il figlio fuori di prigione, qualsiasi cosa abbia fatto; nulla però vieta di pensare che il padre sia lì anche per valutare il grado di ri-presentabilità del figlio prima di reintrodurlo nella vita normale, e infatti gli propone di fermarsi in una trattoria a mangiare prima di tornare a casa; potrebbe pure darsi che egli sia l'unico che abbia ancora voglia di avere a che fare col narratore. In ogni modo, insomma, il carcere ha costituito una prova incancellabile, forse pure la conferma del messaggio simbolico che il narratore associa all'albero di arance amare che dà il titolo al capitolo e lo chiude con un ultimo fotogramma: le arance amare non sono buone per la marmellata (molto meno buone rispetto alle ciliegie, almeno), cadono per terra e non servono a niente, eppure esistono.  Non si fa fatica ad identificare le arance col destino dei detenuti, tenuti in vita senza scopo in carcere e poi destinati a 'cadere' nei modi più vari.
Il messaggio del primo capitolo pare quindi paradossalmente il fatto che la vita non ha messaggi. Bonvissuto sembra dirci che, una volta che siamo finiti 'dentro' la vita, essa ci farà entrare 'dentro' infinite situazioni che a loro volta precipiteranno 'dentro' di noi. Manca, pare suggerirci lo scrittore, il senso profondo di tutto ciò.
L'impressione è confermata dal secondo capitolo, ambientato circa a metà degli anni '80: il narratore constata che i cortili della sua infanzia, un tempo pieni di bimbi schiamazzanti, sono ora desolantemente vuoti, tutti sono 'dentro' casa, incollati alla televisione. Vorrei sentire qui un filino di polemica contro il cambio di abitudini che la TV dei ragazzi copiosamente ammannita soprattutto dalle emittenti private ha imposto ai giovani dell'epoca. Questa casalinghizzazione di pomeriggi giovanili trova nel narratore la reazione più ovvia: giunto al liceo, districatosi in un dedalo di corridoi misteriosi e popolati da personale ATA quantomai pittoresco, egli giunge 'dentro' la sua classe e, solo per effetto del caso, finisce vicino di banco di un ragazzo che diventerà la sua perfetta metà per tutto l'anno, colui con il quale passare tutto il tempo 'fuori' sia da casa che da scuola. Non abbiamo però rievocazioni idilliche di giovinezza perduta o episodi da libro 'Cuore' e neppure fragorose odi al giovanilismo autoreferenziale e senza ideologia di quegli anni: il narratore e il suo amico stanno bene insieme e stop, non progettano, non ricapitolano, semplicemente vivono  come una Diarchia (pag. 112: "Figurarsi se potremmo mai essere in grado d'intendere il funzionamento di un sistema immenso e immensamente complesso come quello che sta dietro a due persone qualsiasi che non si conoscono fra di loro e che una mattina d'autunno finiscono sedute nello stesso banco di una scuola pubblica di una grande città". pag. 136: "Di tutta questa moltitudine, però, solo uno continuava a sedere vicino a me. Poteva essere chiunque, ma era lui. Rappresentava da solo l'intera classe. O la città. Di più ancora, all'infinito: la sua era la faccia del resto del mondo, la prima cosa che avrei continuato a vedere oltre me. Ogni volta che mi sarei girato avrei potuto vedere tutto, invece avrei visto lui"). Un fine ulteriore dunque non c'è, o non lo si vuol cercare.
Così pure minimale eppure significativo è l'episodio del terzo capitolo: il narratore deve avere sui 5-6 anni e d'un colpo scopre che un abisso lo separa dai suoi amichetti: essi sanno andare in bicicletta, lui no, solo che questa capacità è diventata la nuova conditio sine qua non è possibile seguire gli altri due verso 'il deserto', un luogo vicino alla pineta delle vacanze che deduciamo essere particolarmente arido ma soprattutto, nella fertile psicologia dei seienni, passibile di venire trasformato in qualsiasi cosa (l'eco di via Paal risuona stentoreo). Nel microdramma del narratore si inserisce anche un episodio di precoce educazione sentimentale (se vogliamo dir così), poiché una bambina assiste alla scena del cazziatone dei due amichetti al protagonista e poi lo convince a venire a casa con lei. Insieme passano in un campo di gigli (pag. 153), il cui valore simbolico viene subito esibito dal narratore: essi, a differenza delle margherite che crescono sempre in grandi gruppi, si possono vedere vicini tra loro solo per caso (=richiamo alla vicenda del capitolo precedente), essi forse non sono fatti per stare nei prati e si trovano lì per sbaglio (= senso di sbalestramento rispetto alle abilità possedute dagli amichetti) e su uno di questi egli vede posato un moscone (=lui così sfigato e lei così carina?). A risolvere il tutto la scoperta che entrambi gli amichetti hanno imparato dal proprio padre come andare in bicicletta; in  protagonista si fionda quindi dal suo, gli sottopone il problema e costui, senza batter ciglio, lo porta dagli altri due e ordina loro di lasciarlo salire sulla bici, poi lo sistema sopra di essa, lo spinge e via che si impara a dominare il mezzo. La situazione di colora di tinte da 'Linea d'ombra' nel momento in cui il narratore chiede lumi al padre su come manovrare la bici e lui gli risponde che è una cosa che ciascuno impara a modo suo e non può essere insegnata. La piccola vittoria ottenuta sul suo precedente limite fa dire al narrratore (pag. 170): "Certo non ero un uomo. Ma nemmeno più un bambino, o almeno non il bambino di prima".

GIUDIZIO E CONGEDO

Libro certamente sussurrante questo, che non pretende di spiegare nulla a nessuno, ma di scandagliare i sentimenti più semplici innescati da situazioni semplici (l'estate dell'infanzia, il liceo), oppure mettere di fronte l'uomo alla sua essenzialità di essere votato al dolore (il carcere). L'infanzia non è qui un mito in cui cullarsi, l'adolescenza non è il ricettacolo di ogni possibilità da rimpiangere, la vita adulta col suo dolore è accettata pur con la coscienza delle infinite vie di perdizione cui l'uomo è esposto. Questo sottile nichilismo di fondo è secondo me riflesso in un procedimento stilistico che altrimenti resterebbe senza motivo e andrebbe piuttosto a disdoro dello scrittore. E' noto che, sin dai tempi di Omero, l'uomo di lettere ama infarcire le sue opere di sentenze a carattere universale dedotte dall'esperienza (in greco antico si chiamano gnòmai) come potrebbe essere una frase del tipo: "Nessuna pieta dagli dèi per chi coltiva ingiustizia nel cuore". L'atteggiamento gnomico si può declinare poi nel semplice aforisma (citofonare Wilde o Proust), ma in generale la gnomica è l'ornamento quasi necessario per ogni opera di un certo livello, costituendo essa per così dire il frutto succoso e splendente che cresce sui rami delle vicende narrate. Ora, Bonvissuto non sfugge a questa regola, ma accanto a gnomai senza dubbio pregevoli (pag. 144: "Dicono che la coscienza del tempo sia qualcosa che appartiene all'anima. Oppure piuttosto ciò che ci resta quando assistiamo al movimento dei corpi. Io tendo a pensare che non sia né l'una né l'altra cosa; e che il tempo sia qualcosa che appartiene ai luoghi"; pag. 149: "La polvere [...] dev'essere la parte visibile del tempo, se non addirittura il suo precipitato") ce ne sono altre di una ingenuità così banale da lasciar perplessi: (pag. 14: "la frutta la puoi guardare per ore, ma non la capisci se non la tocchi; pag. 72: "se hai sonno puoi mangiare lo stesso, ma se hai fame non riesci nemmeno a dormire"; pag. 110: "Perché non c'è niente di più gioioso e leggero di una classe  quando l'insegnante dovrebbe essere lì e invece non c'è"; pag. 169: "La mamma è meglio vederla da vicino. Il padre lo capisci da una certa distanza"). Se non vogliamo dare credito all'ipotesi di cadute dilettantistiche, visto che di sostanza il libro ne ha, vorrei vedere qui una più o meno conscia estremizzazione da parte dell'autore del nichilismo minimalista che presiede a tutta la vicenda: Bonvissuto, convinto che il mondo sia fondamentalmente un nonsenso occasionalmente illuminato da squarci di effimera serenità che subito si perde, applica questo inerte pessimismo anche alla forma dell'espressione: se davvero manca il senso profondo dell'esserci delle cose, non c'è nulla da pretendere neppure dalle gnomai, che dovrebbero avere validità extratemporale. Ma, ci dice l'autore, il nostro hic et nunc è perso nella flebile semplicità del sopravvivere a se stessi, pertanto sarebbe pretenzioso fissare le nostre micro-esperienze in sentenze capitali. Ecco allora che l'apparato gnomico si fa pur esso banale, ma di una banalità omogenea al mondo descritto nel romanzo. Se come mi auguro questo è il presupposto, mi congratulo con l'autore.

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